L’uomo qualunque

Nel 1944, con l’Italia in ginocchio per le devastazioni della guerra, stanco del fascismo e della sempe maggiore intromissione dei partiti nella vita dei comuni cittadini, il giornalista napoletano Guglielmo Giannini fondò il movimento d’opinione Fronte dell’uomo qualunque e, poco tempo dopo, un nuovo partito.

Nacque così una ideologia politica che prese il nome di qualunquismo, e il partito, nelle elezioni del 1946, conseguì il 5,3% dei voti e portò in Parlamento 30 eletti, dando il via a quel fenomeno che fin da allora prese il nome di antipolitica, ferocemente avverso ai partiti tradizionali, e particolarmente nemico del comunismo, al quale Giannini imputava le morti dei fascisti e dei civili nel dopoguerra, in quello che fu definito “il triangolo rosso”.

Il  movimento si sciolse prima delle elezioni del 1953, ma ha lasciato un segno tangibile nella storia della politica italiana del dopoguerra.

Questa storia non vi ricorda qualcosa, pensando ai nostri giorni?

Assistiamo infatti a un forte sentimento antipolitico, alla quasi totale scomparsa dei partiti tradizionali e storici, che facevano riferimento alle grandi famiglie ideologiche della socialdemocrazia, del liberalismo, del cattolicesimo, del comunismo, del socialismo, prima spazzati via dal crollo della prima Repubblica sotto i colpi di maglio dell’inchiesta Mani Pulite dei primi anni ’90 (sulla quale però oggi andrebbe condotta un’attenta riflessione storica…), poi  dall’incapacità di riformarsi degli stessi.

La nascita di movimenti fortemente critici nei confronti della “casta”, individuata quale bersaglio da colpire per affermare un principio di giustizia sociale che punti a una redistribuzione della ricchezza, che effettivamente negli ultimi anni si è sempre più spostata verso l’alto. favorendo le classi più abbienti a danno di quelle meno agiate, con un aumento esponenziale del numero dei poveri e degli indigenti, e con la quasi totale scomparsa del ceto medio.

Questo fenomeno si va sviluppando su scala mondiale, soprattutto dopo la crisi finanziaria esplosa nei primi anni di questo decennio e che non si può dire ancora conclusa: segni tangibili l’elezione di Trump negli USA, i risultati elettorali in Germania, Olanda, Austria, il fenomeno dei gilet gialli in Francia, e la situazione politica italiana.

Dopo i Governi Monti, Letta, Renzi e Gentiloni, con il PD quale partito di riferimento, dalle elezioni del marzo 2018 è nato un governo che si basa sull’innaturale alleanza tra il M5S (la cui genesi ricorda quella del partito di Gianninj) e la Lega, che in campagna elettorale si presentarono su posizioni totalmente opposte, con proposte e programmi in evidente antitesi.

Ciò si è reso necessario perchè il risultato delle elezioni non aveva individuato una compagine o una coalizione in grado di formare un governo tra forze omogenee: la legge elettorale meglio conosciuta come Rosatellum, latinizzando il cognome del deputato Rosato del PD che l’aveva partorita, dando libero sfogo alla sua mente perversa, scritta con l’evidente intento di favorire un’alleanza post-elettorale tra PD e FI e approvata a forza di voti di fiducia, in barba alle più elementari regole di rispetto della democrazia ma che, per il noto fenomeno dell’eterogenesi dei fini, ha portato all’affermazione del M5S e della Lega.

Dopo un lungo periodo di tentativi non andati a buon fine, i due partiti usciti vincitori dalle elezioni hanno formato un governo contraddittorio e che si regge su di un sottile equilibrio, e che sta in piedi ormai da quasi sei mesi.

Con quali risultati? La cartina al tornasole è senza dubbio la manovra economica, la cui definizione sta portando alla luce tutte le contraddizioni ideologiche e programmatiche tra le due forze al governo, con sullo sfondo le intromissioni della Commissione Europea che, con evidente strabismo, mena fendenti sull’Italia, colpevole di stabilire un rapporto deficit/PIL al 2%, e nulla dice sulla Francia che invece si porta quasi al 3,5%, ma questo è un argomento che merita una trattazione a parte: dico solo che mi sarei aspettato che il Presidente della Repubblica, garante della Costituzione vigente, facesse sentire la sua autorevole voce in difesa della sovranità nazionale e del rispetto della dignità che credo fermamente spetti all’Italia, Paese fondatore dell’Europa unita.

Il Governo si dibatte tra reddito di cittadinanza e quota 100 per le pensioni, ecotassa per le automobili inquinanti e taglio alle pensioni d’oro, TAV e TAP, senza trovare la quadra, dimostrando con i fatti che, più che perseguire una politica che punti allo sviluppo e alla crescita economica del Paese (dati sui quali siamo da anni fanalino di coda in Europa, con buona pace di quanto afferma l’attuale opposizione), insegue la necessità di dare seguito alle promesse elettorali grazie alle quali ha conseguito il successo nelle urne: le forze che lo compongono sanno bene che nel caso non dovessero dare compiuta attuazione a quanto garantito l’elettorato potrebbe girare loro le spalle e condannarli a una meritata sconfitta.

Non intendo entrare nel merito dei singoli provvedimenti: mi limito a dire che, con riferimento alle polemiche in atto con l’UE, non mi sarei aspettato la marcia indietro sul rapporto deficit/PIL, perchè le tronituanti dichiarazioni di Di Maio e Salvini garantivano che nessun cedimento si sarebbe verificato, ma poi i fatti li hanno clamorosamente smentiti, e quindi i due non hanno certamente fatto una buona figura.

Ma soprattutto non capisco una cosa: se le elezioni hanno di fatto sancito che il corpo elettorale ha sonoramente bocciato le forze politiche responsabili del governo degli ultimi dieci anni, condannando il PD alla più clamorosa sconfitta della storia della sinistra e relegandolo a un ruolo di assoluta irrilevanza, è segno che la gente comune non ha ritenuto adeguate le politiche messe in atto, chiedendo con chiarezza un cambiamento netto rispetto al passato.

E allora, questo che si è autodefinito governo del cambiamento e del popolo, deve dimostrare con i fatti di esserlo davvero, invece di arrampicarsi sugli specchi cercando di far quadrare i conti e, in realtà, annacquando quasi totalmente i provvedimenti sui quali ha basato il suo successo elettorale, al di là del merito degli stessi: se si tradiscono le promesse prima o poi se ne paga il fio, PD docet.

E poi è insopportabile l’atteggiamento di certi rappresentanti del governo, che si atteggiano a novelli Savonarola, sempre pronti a fustigare i cattivi comportamenti degli avversari, per mostrarsi invece tolleranti con le nefandezze commesse dai propri sodali: sono da sempre un convinto assertore della coerenza e dell’onestà intellettuale, e così come non ho mancato di criticare gli atteggiamenti di parte e ipocriti del PD, non posso che far rilevare che molti dei componenti dell’attuale maggioranza stanno sempre più adottando lo stesso comportamento.

Ci avviciniamo alle elezioni europee della primavera del 2019, e quello sarà un importante banco di prova, sia per l’attuale governo, sia per l’opposizione.

E qui la cosa si complica, perchè:

  • la Lega sembra godere di ottima salute, almeno a guardare i sondaggi, che la danno in continua crescita, fino a farne il primo partito
  • viceversa, il M5S viene dato in calo, probabilmente a causa della posizione di sottomissione rispetto all’azione della Lega che sembra essere il vero locomotore del Governo, e alle contraddizioni interne che vanno sempre più affiorando
  • Forza Italia ormai è un partito di zombie, ancora dipendenti dal capo cordata Berlusconi il quale, tra le mille colpe che possono essergli addebitate, ha senz’altro quella di non aver saputo favorire la nascita di una nuova generazione di politici in grado di gestire e modernizzare il partito, nell’ambito di una destra moderna, liberale, riformatrice come è stato nella storia e come è in altri Paesi evoluti
  • per finire il PD, sul quale bisognerebbe scrivere pagine e pagine di considerazioni. Dopo l’infinita serie di sconfitte subite negli ultimi anni, tali da averlo portato al peggiore risultato della storia della sinistra, stanno finalmente per avviarsi i lavori del congresso che dovrà eleggere il nuovo Segretario al quale affidare l’ingrato compito di tentare la rinascita del partito.

Alla competizione si presentano sei candidati, i più accreditati dei quali si pongono in assoluta continuità con il passato: Zingaretti, attuale Presidente della Regione Lazio, Martina, già Ministro dei precedenti governi e vice segretario del partito all’epoca di Renzi, e il sempiterno Giachetti, renziano di ferro e chiaro esempio di coerenza, uno che, tra uno sciopero della fame e l’altro,  si è candidato a tutte le cariche possibili e immaginabili, finendo sempre clamorosamente sconfitto, ma che non ha mai sentito l’esigenza di fare un passo indietro ma che è sempre lì, immarcescibile.

Il tutto sotto la presenza incombente di Renzi, il quale da una parte dichiara di voler fare il semplice Senatore dell’opposizione, ma che in effetti continua a distribuire le carte, in barba a tutte le promesse fatte e mai mantenute, il che ne fa oggettivamente il politico più inaffidabile della storia d’Italia, qualità che si affianca a quella di essere il leader più perdente della sinistra.

In un Paese che avesse soltanto un pò di memoria, un politico che promette di ritirarsi a vita privata in caso di sconfitta (cosa che Renzi affermò solennemente prima del referendum costituzionale di due anni fa), e poi si rimangia la parola, sarebbe stato esposto al pubblico ludibrio, ma l’Italia non volge mai lo sguardo al passato e perdona tutto, anche a chi non se lo merita.

E Renzi, secondo me, rappresenta la gabbia all’interno della quale il PD si è lasciato chiudere, con il rischio, se non se ne libererà, di finire ingloriosamente la sua storia, privando il Paese di una vera, significativa, efficace e convincente forza di opposizione che faccia le pulci a un governo che, in assenza di contraddittorio parlamentare, rischia di fare danno.

Invece sembra che Renzi voglia dare vita a un nuovo partito che ammicca a Macron, che finirà per sottrarre voti al PD, con il risultato di provocare una nuova e credo definitiva parcellizzazione della sinistra, condannandola alla fine a percentuali irrilevanti: una decisione quindi improvvida e criminale da parte di un politico che dovrebbe soltanto farsi da parte e lasciare che il PD cambi completamente la propria classe dirigente, riavvicinandosi alla gente che gli ha voltato le spalle.

Il panorama politico italiano presenta un novello Masaniello privo di struttura e di cultura politica (Di Maio), un nuovo Duce in assenza di fascismo (Salvini), un milionario che crede nel mito del dottor Faust (Berlusconi) e, dulcis in fundo, un venditore di pentole e bugiardo seriale che si atteggia a nuovo statista e divulgatore scientifico (Renzi): non c’è da stare allegri, la politica è una cosa seria, ai suoi protagonisti affidiamo il compito di definire le regole d’impianto che poi condizioneranno il nostro vivere quotidiano e soprattutto il futuro delle nuove generazioni, alle quali abbiamo il dovere di pensare, come per noi hanno fatto i nostri genitori.

E’ troppo sperare in un nuovo anelito di rivalsa morale, di uno scatto di dignità che faccia da spunto per una rinascita etica che ci allontani da questa classe dirigente imbelle e indegna della nostra fiducia, assecondata peraltro dai movimenti d’opinione, formati da giornalisti e presunti intellettuali in realtà privi di autonomia di pensiero, ma piuttosto appiattiti sul pensiero dominante del politicamente corretto, e lontani anni luce da quello che pensano le persone comuni, assolutamente più intelligenti e avvedute del più brillante degli pseudo-intellettuali schierati?

E’ questo il nuovo qualunquismo, per tornare alle considerazioni che facevo in apertura di questo post? Forse sì, il cosiddetto populismo è figlio dell’inadeguatezza delle azioni politiche poste in  essere, più favorevoli ai poteri forti che alla ricerca del bene comune: può essere un pericolo, ma la colpa non sta dalla parte di chi giustamente chiede maggiore attenzione ai problemi reali, ma certamente da quella di chi dimostra di inseguire il successo nella prossima competizione elettorale e non il benessere delle future generazioni.

Staremo a vedere, non ci resta che sperare…

“Noi non abbiamo ricevuto il mondo in eredità dai nostri padri, ma lo abbiamo ricevuto in prestito dai nostri figli”
Proverbio pellerossa

Il caso Francia e l’UE

Ieri sera il Presidente della Francia, Emmanuel Macron, è apparso in TV per tenere un discorso alla Nazione, per cercare di dare un segnale di disponibilità al movimento dei gilet gialli, che nelle ultime settimane stanno mettendo a ferro e fuoco il Paese, per protestare contro le politiche messe in atto dallo stesso Macron.

Questa situazione ha portato la Francia sull’orlo di una quasi guerra civile, e le immagini che le televisioni e i social stanno diffondendo dimostrano che ampie fasce della popolazione francese rinnegano le politiche poste in atto da Macron, la cui popolarità, secondo tutti gli istituti di ricerca, è crollata a livelli talmente bassi da costituire un nuovo record negativo: e in particolare, nell’ultima fine settimana, quando il movimento ha annunciato una nuova manifestazione, si è addirittura arrivati a parlare di pericolo di colpo di stato, tanto grave è apparsa la situazione, evidentemente sfuggita al controllo delle istituzioni.

Macron si è distinto, da quando è stato eletto, per un atteggiamento estremamente determinato,  poco incline all’accordo e alla ricerca della condivisione con gli strati intermedi della società francese, e ha posto in essere iniziative politiche di stampo liberista che lo hanno allontanato dalle classi sociali meno abbienti, con una evidente similitudine a ciò che la moderna sinistra, o meglio presunta tale, va operando in tutta Europa, Italia compresa.  La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata l’aumento delle accise sui carburanti, ma sembra chiaro che questa nuova tassa sia stata di fatto un pretesto del quale il movimento di protesta si è avvalso per dare la stura alle sue rivendicazioni.

Macron, il Presidente che vuole farsi Re, ma che è stato legittimamente eletto da una minoranza dell’elettorato francese, sfruttando la grave crisi che ha colpito i partiti tradizionali e lanciando la sua lista personale “En marche”, ha riempito in parte il vuoto che questi ultimi hanno lasciato: dopo un primo periodo durante il quale sembrava avere assunto il ruolo di paladino del più ortodosso europeismo, tanto da suscitare anche in Italia l’adesione entusiastica alla sua piattaforma politica, si è presto rivelato ben diverso da quello che era apparso.

I continui respingimenti degli emigranti che dall’Italia cercavano di recarsi in Francia, addirittura sconfinando nel nostro territorio con i suoi gendarmi in armi (e qui potremmo aprire una discussione sulla poca fermezza dimostrata dai nostri governi nel reagire a un atto inauditamente scorretto da parte di un Paese confinante), il tentativo di porre in essere un asse con la Germania per governare l’Europa da novello Imperatore, e altre iniziative che ne definiscono la voglia di grandeur tipica della cultura sciovinista francese, lo hanno forse intimamente convinto di essere la reincarnazione di Napoleone, ma la dura realtà dei fatti lo ha presto richiamato a un necessario bagno di umiltà, del quale ieri sera ha dato prova, durante il discorso alla Nazione.

E lo ha fatto annunciando delle concessioni ad alcune delle richieste dei gilet gialli, per cercare di arginarne la protesta, e riconoscendo di avere compiuto degli errori nella sua azione politica, circostanza questa che, dato il suo carattere, deve essergli costata cara.

Ora, tutto ciò lo porterà a varare delle iniziative economiche tali da far sì che i margini definiti dall’UE in tema di gestione economica saranno ampiamente superati: è chiaro che dare seguito alle promesse annunciate ieri sera porterà al superamento di quel 3% che costituisce il limite invalicabile secondo i trattati dell’UE in tema di gestione finanziaria.

Tutti sappiamo che in queste settimane il nostro attuale Governo sta trattando con la stessa UE per cercare di evitare che venga attivata una procedura d’infrazione, causata dal fatto che la Legge di Bilancio italiana per il 2019 prevede un deficit attestato al 2,4% del PIL, comunque al di sotto del citato limite del 3%.

Dalle dichiarazioni del Governo, per la verità poco chiare e piuttosto ondivaghe, pare che vi sia la disponibilità a limare quella cifra del 2,4, portandola a un livello più basso, con l’auspicio che l’UE possa accettare il taglio e non dare corso alla procedura d’infrazione: se ciò accadesse, alcune delle misure promesse dai partiti dell’attuale maggioranza non troverebbero copertura o, nella migliore delle ipotesi, dovrebbero essere pesantemente limitate.

La situazione prospettata presenta evidenti analogie con quella che si prospetta per la Francia, se Macron dovesse dare effettivo seguito alle promesse di ieri sera: con la sola ma sostanziale differenza che, se l’Italia pensa di passare dal 2,4% a una quota più bassa, la Francia dovrà salire dall’attuale ipotizzato 2,8 a ben oltre il 3.

Alcuni solerti commentatori politici, avvezzi alla più feroce critica quando si trovano a discettare delle iniziative del Governo italiano, ma sempre indulgenti nei confronti degli illuminati statisti d’oltre confine, sostengono che non si possono fare raffronti tra le situazioni dell’Italia e della Francia, per via del fatto che il rapporto deficit/PIL e lo spread italiani sono ben più ampi rispetto a quelli della Francia.

Ciò è oggettivo, ma lo è altrettanto che entrambe le manovre sarebbero comunque fatte a debito, e i trattati vigenti in ambito UE stabiliscono il limite del 3% come totem assoluto, e quindi, al di là delle diverse situazioni complessive dei due Paesi, se procedura d’infrazione deve essere attivata nei confronti dell’Italia che individua un parametro in ogni caso inferiore a quel limite, altrettanto deve essere fatto nei confronti della Francia che quel limite lo supererà ampiamente.

Ne va della credibilità dell’istituzione europea, già messa a dura prova dai numerosi errori compiuti nel corso di questi ultimi anni dall’attuazione di politiche di austerità che hanno prodotto nuova povertà e condizioni economiche il cui risultato è proprio il proliferare di movimenti di protesta, e il tramonto delle forze politiche tradizionali, che non  hanno saputo dare risposta alle istanza delle classi sociali meno abbienti.

Vedremo se il Commissario Europeo Pierre Moscovici, così prodigo di bacchettate a quel discolo impenitente del Governo italiano, sarà altrettanto inflessibile con i suoi compatrioti: se ciò non dovesse accadere, e in fretta, e se a Italia e Francia saranno riservati trattamenti differenti e non equi, a dimostrazione di un’Europa a due misure, nella quale i Paesi aderenti non hanno stessa dignità, mi aspetto una ferma, radicale e inflessibile reazione da parte delle Istituzioni italiane, al livello più alto, perchè una volta tanto venga rispettata la dignità del nostro Paese, tra i primi fondatori dell’UE da sempre sostenitore della stessa.

Se ciò non accadrà, poi sarà assolutamente ipocrita meravigliarsi se nelle prossime elezioni europee della primavera 2019 dovessero segnare un ulteriore arretramento delle forze politiche che assecondano le politiche dell’UE, per favorire i partiti che, piaccia o no, ne contestano l’impianto e ne propongono un cambiamento dell’assetto e delle norme.

Qui si vedrà qual è la tempra della nostra classe dirigente, chiamata a far rispettare una Nazione che dell’Europa ha contribuito a scrivere la storia e senza della quale l’Europa stessa non esisterebbe.