Da più di un anno, siamo alle prese con una pandemia dalla quale non riusciamo a venire fuori, nonostante tutti gli sforzi compiuti sia dalle autorità competenti, nazionali e internazionali, sia da ciascuno di noi, costretti dalle drammatiche circostanze a mutare i nostri comportamenti, a privarci di tanti diritti ai quali eravamo abituati, e a condurre un’esistenza connotata da un costante stato di preoccupazione e angoscia, tali da compromettere fors’anche la nostra stessa integrità psicologica.
Ma siamo tutti persuasi che questi sacrifici sono necessari, perché solo grazie a un’azione efficace e convinta di prevenzione e lotta alla diffusione del contagio si potrà tornare, nel più breve tempo possibile, a una vita normale, che consenta al sistema di riprendersi e di riemergere dalle tenebre nelle quali è caduto.
In questa situazione, è emerso in tutta la sua gravità il vecchio e mai completamente risolto dilemma del conflitto tra la salute e il lavoro, tra la tutela dell’ambiente per proteggere noi stessi, e il diritto di ciascun cittadino di poter sostenere se stesso e la sua famiglia attraverso un’attività che gli consenta una vita dignitosa e compiuta.
Spesso questi due diritti garantiti dalla Costituzione vengono a porsi in conflitto tra di loro, e cercare un equilibrio è opera quanto mai complessa e di complicatissima attuazione.
E proprio in questo frangente della nostra storia ce ne accorgiamo con drammatica evidenza: la ricerca e l’attuazione di iniziative di carattere sanitario, necessarie per cercare di contenere la pandemia, hanno di fatto messo in ginocchio interi settori del mondo produttivo, costretti dalle circostanze a limitare, e in qualche caso addirittura a sospendere, le loro consuete attività, con il rischio tangibile e purtroppo sempre più probabile di ipotizzare chiusure definitive, con impatti devastanti sul tessuto economico e sociale.
Abbiamo quindi preso coscienza del fatto che nulla può essere trascurato, quando in ballo c’è la salute e la vita dei cittadini, anche a costo di dover costringere intere categorie di lavoratori attivi a sospendere le proprie occupazioni, e a vivere momenti che spesso possono portare a uno stato di indigenza e di estrema difficoltà.
Ebbene, ieri mattina, durante la trasmissione “L’aria che tira”, in onda su LA7, Carlo Calenda, leader di Azione, candidato alla carica di Sindaco di Roma e onnipresente in TV, dove gode di un credito inspiegabile a mio avviso, a proposito della decisione del TAR di Lecce, che ha ingiunto ad Arcelor Mittal la chiusura dell’area a caldo dell’acciaieria ex-ILVA di Taranto, perché costituisce “Pericolo urgente per la salute dei cittadini”, ha dichiarato testualmente, rispondendo a una domanda della conduttrice, che “il Governo deve mettere l’ex ILVA al riparo dalla Magistratura”, e che la sentenza è totalmente ingiustificata.
Tale atteggiamento di assoluta noncuranza dei diritti costituzionali dei Tarantini da parte di Calenda non stupisce: il personaggio ha dato ampia prova, in passato e anche in qualità di ex Ministro per lo Sviluppo Economico, di non preoccuparsi minimamente dello stato d’emergenza che la città di Taranto e i suoi cittadini vivono da decenni, nella totale incuranza delle classi politiche e dirigenti che si sono succedute invano, e pertanto le sue farneticanti parole non mi meravigliano affatto.
Fu sua la scelta di affidare la gestione dell’impianto ad Arcelor Mittal, a seguito di una gara sulla cui gestione sono stati sollevati numerosi dubbi ai quali non è mai stata data risposta adeguata, nonostante il parere contrario dei sindacati e le osservazioni sollevate dall’Avvocatura dello Stato, e in presenza di un piano industriale che una qualificata commissione del MISE giudicò inadegauto e inattuabile, come poi si è puntualmente confermato.
Semmai mi chiedo perché ci si ostini ancora a chiedere proprio a lui un parere sull’azione della Magistratura, accusata praticamente di applicare la legge, come se potesse fare altro: è come prendersela con il termometro, in caso di febbre, e non con la patologia che l’ha causata.
Io sono nato a Taranto, vi ho vissuto fino ai diciotto anni, ci sono tornato dopo l’Accademia Navale per prestare servizio in Marina, l’ho lasciata per altre destinazioni e ci sono tornato ancora per anni: ricordo bene l’atmosfera che vi si respirava fin dai tardi anni ’70, quando il fenomeno dell’inquinamento cominciava a manifestarsi, quando l’OMS cominciava a parlare di “caso Taranto”, nella totale indifferenza della politica, quando cominciavano a registrarsi i primi decessi per malattie direttamente legate alla produzione di uno stabilimento che, in pochi anni, vide le proprie dimensioni territoriali aumentare a dismisura, fino a fagocitare interi quartieri e a raggiungere un’estensione superiore a quella della stessa città: un mostro di acciaio che divorava tutto, e ricordo benissimo quando, durante le giornate di vento, sul balcone di casa si depositava materiale ferroso di colore tetramente rosso che macchiava indelebilmente tutto ciò su cui si posava, e che noi Tarantini respiravamo a pieni polmoni.
E ho perso amici e parenti, colpiti da tumori e leucemie, senza che nessuno se ne occupasse, con la scusa che quello è uno stabilimento di “strategico interesse nazionale” e che ipotizzarne la chiusura è folle, perché il danno economico per la filiera industriale ne subirebbe un danno irreparabile.
Beh, lasciate che lo dica francamente: tutte le ragioni di natura economica e industriale sono certamente degne di rilievo, ma di fronte al dramma che tutte le famiglie Tarantine vivono quotidianamente a me non importa nulla di tutto ciò, perché se è vero, come è vero, che proprio in questo momento storico abbiamo compreso che le ragioni della salute pubblica sono prevalenti su qualsiasi altro aspetto, ciò non può valere solo per il COVID, ma vale anche per chi da decenni è costretto a subire il vile ricatto che lo pone di fronte alla scelta tra il diritto al lavoro e quello alla salute: o muori di fame, o muori di cancro!
Non ci sono malati di serie A e malati di serie B, e quelli di Taranto sono sempre stati considerati tra la seconda schiera: il Governo che sta per insediarsi adoperi ogni risorsa utile e necessaria per risanare quel maledetto impianto che continua a produrre lutti e devastazione, e che ha fatto della mia città un lazzaretto, sofferente e abbandonato da chi non si assume la responsabilità che si impone, per motivi di etica e morale.
Se ciò non è possibile o non si vuole affrontare il problema, allora si decida per una soluzione draconiana, esattamente con lo stesso piglio decisionista che si sta adottando per la gestione della pandemia, la cui oggettiva gravità non giustifica il fatto che si trascuri una questione che si trascina criminalmente da tempo immemore: e si smetta di chiedere pareri illuminanti a chi, come Calenda, è parte in causa del problema e sulle cui considerazioni sarebbe interessante chiedere un parere ai genitori dei bimbi ammalati, e ai parenti delle vittime di questa tragedia.
Vediamo quanto costoro sono disposti a comprendere le ragioni della real politik e delle strategie industriali: sarei davvero curioso di sentire loro, e non i soloni pieni di boria e di spocchia.
Anche su questo tema si misurerà la credibilità del Governo Draghi, i Tarantini lo aspettano al varco!